Mi imbatto spesso in persone che hanno un’espressione tra l’incredulo e lo spaventato nel momento in cui scoprono qual è il mio lavoro.
Mi chiedono poi, con un guizzo di curiosità: “ma il tuo lavoro in cosa consiste?” E a questo punto nella mia mente partono milioni di immagini, metafore e paragoni per cercare di spiegare, in maniera semplice e chiara, chi sono e cosa faccio.
Le persone comuni capiscono molto più facilmente cosa fa l’otorinolaringoiatra (credetemi, scrivere questa parola non è semplice affatto) che lo psicoterapeuta.
Comprendere che le emozioni, i pensieri e gli atteggiamenti alle volte possono creare difficoltà e avere bisogno di cure, non è sempre un concetto immediato.
Dello psicoterapeuta ci si vergogna o ci si imbarazza…
Perché raccontare i “fatti propri” ad un estraneo? Cosa può fare per me? Cosa ne sa lui di me?
Cosa può curare con le parole?
Interrogativi che possono interessare le persone, senza che si rendano conto che, porsi queste domande, può già essere sintomo della necessità di un cambiamento.
Non è difficile capire da dove nasce la confusione e la paura per il mio lavoro. Per anni psicologi e psicoterapeuti sono stati associati al concetto di malattia mentale, pazzia e manicomi. Pensare di averne bisogno, o anche solo voglia di parlarci per esporre le proprie paure e le proprie emozioni, fa paura.
L ‘uomo non può piangere! La donna, si sa, è più volubile. Concetti e stereotipi che ci incatenano ad immagini mentali che stridono con la realtà. Veniamo ancestralmente ancorati a ruoli e aspettative che guidano le nostre esistenze. Quando però chi siamo realmente non corrisponde a chi vorremmo/dovremmo essere, può nascere qualche difficoltà.
Perché non ritorniamo ad ascoltare davvero noi stessi? Poniamo verso il nostro mondo emotivo la stessa attenzione che diamo al nostro corpo? Se ci rendiamo conto di essere stanchi o in difficoltà, perché esitiamo a chiedere aiuto?
Se hai una bronchite, consulti il dottore?